lunedì 29 gennaio 2024

Giornata della Memoria. Andare alle radici della cultura dello sterminio

 


 Viviamo questa giornata in un tempo di smarrimento e di profonda contraddizione. La memoria che celebriamo deve offrirci la misura con cui guardare il mondo ponendoci sempre dalla parte delle vittime.  

Ho cominciato quest’anno attraversando di notte la strade di Gorizia nella marcia silenziosa per la pace tra Italia e Slovenia. 



Abbiamo sostato a lungo davanti alla sinagoga della  comunità ebraica che è interamente scomparsa durante la seconda guerra mondiale, pur essendo gli ebrei strettamenti legati alla storia mitteleuropea di quella città che è il simbolo della “inutile strage” della cosiddetta “grande guerra”. Migliaia di giovani mandati al macello in nome di una certa idea di patria.  


Mi ha sempre colpito il fatto che l’annuncio della promulgazione delle leggi razziali in Italia sia avvenuta nel settembre 1938 con il discorso di Mussolini nella bellissima piazza aperta al mare di Trieste a pochi metri del molo Audace che segnava nel 1918 la fine della prima guerra mondiale. 

In quella città elegante e ricca di cultura una fabbrica che produceva del cibo, la risiera di San Sabba, è diventata un campo di concentramento con tanto di rudimentale forno crematorio.  


Il primo gennaio sono, poi, arrivato a Bologna dove in piazza Maggiore i rappresentati della società civile, il comunità ebraica e di quella islamica oltre alle confessioni cristiane e il comune hanno espressa una chiara adesione al ripudio della guerra e della violenza.

Come sappiamo la ricorrenza del Giorno della Memoria del 27 gennaio è legata alla data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, nel 1945, da parte dell’Armata Rossa. 

È stata istituita solo recentemente in vari Paesi europei e in Italia con lalegge 211 del 20 luglio 2000 come dice l’articolo 1, «al fine di ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».

Cerimonie come questa di oggi sono promosse per conoscere e riflettere «su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».


Come ha messo in evidenza il presidente Mattarella nel discorso pronunciato ieri 26 gennaio al Quirinale «non si deve mai dimenticare che il nostro Paese, l’Italia, adottò durante il fascismo – in un clima di complessiva indifferenza -  le ignobili leggi razziste: il capitolo iniziale del terribile libro dello sterminio; e che gli appartenenti alla Repubblica di Salò collaborarono attivamente alla cattura, alla deportazione e persino alle stragi degli ebrei».

Mattarella ha citato un intervento di Primo Levi del 1973  che diceva così: «La storia della deportazione e dei campi di concentramento non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: ne rappresenta il fondamento condotto all’estremo, oltre ogni limite della legge morale che è incisa nella coscienza umana».


Alcuni avevano proposto, a ragione, di scegliere come data di questa giornata di memoria dell’orrore il giorno 16 ottobre che è quel sabato del 1943 in cui avvenne il rastrellamento nel quartiere del ghetto ebraico di Roma.

La prima consapevolezza che dovremmo cercare di far emergere nelle nostre coscienze è la facilità estrema in cui si può entrare in quella zona grigia fatta di indifferenza dove man mano scompare la percezione del dolore e anche del volto dell’altro.

E questo vale con uno sguardo verso la realtà dei nostri giorni, perché come ha detto sempre Primo Levi «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».

Per questo motivo dobbiamo far conoscere coloro che testimoniano un segno di luce nella notte.

Credo che a Ciampino dovremmo mettere in evidenza e valorizzare l’intitolazione del liceo scientifico a Vito Volterra, uno dei pochissimi professori universitari (18 su oltre 1200) che nel 1931 rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al fascismo.


Con alcuni amici abbiamo promosso qui a Ciampino un’associazione intitolata a Teresio Olivelli, un giovane partigiano giunto alla scelta di ripudio del fascismo dopo una fiduciosa adesione al regime. Olivelli, che con i suoi compagni si definiva ribelle non per odio ma per amore, trovò la morte di stenti in un campo di concentramento nel 1945 per aver difeso i compagni di prigionia dalla tortura.

Credo perciò che un percorso che inizia oggi con il 27 gennaio possa trovare una data ulteriore nel 6 marzo dopo che anche l’Italia nel 2017 ha istituito questo giornata in onore dei Giusti dell’umanità, cioè di coloro che in ogni parte del mondo, hanno salvato vite umane in tutti i genocidi e difeso la dignità umana da ogni potere prevaricante. Abbiamo estremo bisogno di dare spazio alle ragioni profonde della convivenza umana, a chi decide di non essere parte di un meccanismo ingiusto.


Il 2024 è anche il centenario dell’uccisione di Giacomo Matteotti.  Un’occasione per il nostro Paese di uscire dalla rimozione delle collusioni con il fascismo  e di riconoscere il valore fondativo della nostra convivenza in chi come Matteotti, da riscoprire in particolare nella sua opposizione radicale alla prima guerra mondiale, aveva capito l’esito tragico di una tirannide capace di andare, come poi dirà Primo Levi, «oltre ogni limite della legge morale che è incisa nella coscienza umana». 

 Testo dell'intervento pronunciato sabato 27 gennaio 2024 nell'aula consiliare del Comune di Ciampino.

 

 

 

 

venerdì 29 dicembre 2023

Non c’è pace senza conversione economica

 


Premio giornalistico Colombe d'oro per la Pace 2023 assegnato dall’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo

Intervento di Carlo Cefaloni, redattore di Città Nuova (periodico mensile e quotidiano web).


Non c’è pace senza conversione economica

Ringrazio la giuria del premio Colombe d’oro e Archivio Disarmo che come ho detto più volte considero un bene comune per il suo lavoro di ricerca autorevole e indipendente nel campo della pace, della guerra e del sistema delle armi. Nella vita è importante avere dei punti fermi, e uno di questi per me è appunto Archivio Disarmo con il quale esiste ormai una lunga collaborazione. Ricordo ad esempio quando nel 2007 siamo andati con Maurizio Simoncelli in via degli esplosivi a Colleferro, per sostenere un movimento nato dal basso contro le fabbriche di armi, comprese le famigerate bombe a grappolo, che poi ha dato alla rete tutela della valle del Sacco, cioè di un bellissimo territorio da bonificare perché inquinato da un complesso militare industriale che, nel secolo scorso, decise di farne un polo delle armi e poi della chimica mentre l’Italia aveva intrapreso la guerra in Libia e preparava l’entrata nel primo conflitto mondiale.  

Parlavamo di ecologia integrale e conversione economica così come non si stanca di fare Francesco nel sostenere l’impegno contro “l’economia che uccide”.

Assistiamo, infatti, ad una strisciante egemonia della cultura della guerra che ha radici in nodi irrisolti della storia nazionale, se solo si pensa che nelle liturgie laiche della Repubblica che si svolgono nel qui vicino altare della patria si sentono le note del canzone del Piave invece di affrontare le ragioni di quell’orrendo mattatoio che secondo una certa narrazione è stato, invece, “utile” per completare l’unità d’Italia.

Quante volte ci è stato rimproverato di trattare di questioni di nicchia come il sistema delle armi mentre la gente pensa ad altro, tranne poi trovarsi gran parte dei media schierati a favore dell’inevitabilità della guerra davanti alla tragedia in Ucraina e all’orrore in Terrasanta.  Da cattedre prestigiose si afferma letteralmente che è ora il tempo di decidere per cosa siamo disposti a vivere e a uccidere. 


 

Siamo arrivati a questo punto dopo decenni di scelte strutturali trasversali che hanno condotto una grande industria controllata dallo Stato come Leonardo Finmeccanica a dismettere settori produttivi di grande innovazione tecnologica e impatto occupazionale a favore del comparto bellico, o come si dice, della Difesa, che poi deve competere sul mercato. In sede istituzionale sentiamo affermazioni che giustificano la vendita delle armi ai Paesi in guerra con questa logica che lascio a voi interpretare se in linea o meno con la Costituzione: se non le vendiamo noi, le armi, altri lo faranno comunque al posto nostro.

Come mi ha detto in un’intervista l’ex presidente di Confindustria Genova, Stefano Zara, questa scelta di politica industriale è all’origine del declino economico italiano.

Quindi per non fare discorsi retorici sulla pace, bisogna dare spazio e creare dibattito sulle scelte che contano e per questo parliamo di economia disarmata.  Per questo su Città Nuova abbiamo dato risalto e accompagnato il cammino del comitato riconversione Rwm, il fatto esemplare della società civile che non resta indifferente di fronte all’invio di armi in Arabia Saudita da parte della società Rwm controllata da una multinazionale tedesca. Grazie ad una mobilitazione estesa siamo riusciti a fermare questo flusso fino al 31 maggio di quest’anno, quando il governo ha deciso di rimuovere il divieto di esportazione per “l’attenuarsi del rischio di utilizzo delle bombe sulla popolazione civile in Yemen”. Ma se il lavoro è motivo di riscatto e non di ricatto occupazionale, allora è importante far conoscere la rete di imprese in Sardegna che ha deciso di costruire una rete di attività con il marchio warfree, cioè libere dalla guerra. Un percorso dal basso che mostra l’indirizzo che dovrebbero seguire i fondi del pnrr e quelli specifici del just transition fund previsti per le aree di crisi, come previsto in maniera specifica per il Sulcis Iglesiente. 


 

Nella sua lunga storia, Città Nuova ha avuto come direttore Igino Giordani, uno dei padri costituenti che, da deputato, nel 1949 presentò, con il socialista Calosso, la prima proposta di legge sull’obiezione di coscienza suscitando forti opposizioni nel suo stesso partito e lo scandalo dei tutori dell’ordine costituito che dissero: «ma così anche gli operai potrebbero decidere di non produrre le armi».

È quanto avviene oggi con i portuali del Calp di Genova che rifiutano di essere parte della filiera di morte. Ma è già avvenuto con l’obiezione dei lavoratori dell’Aermacchi e delle operaie della Valsella che fabbricava mine antiuomo. Sono loro che hanno permesso di applicare la Costituzione con la legge 185/90 che pone limiti all’esportazione di armi ai Paesi in guerra e/ o violano i diritti umani. 


 

Una legge costantemente sotto attacco perché considerata un ostacolo al nostro sistema produttivo. Il 4 ottobre abbiamo promosso una conferenza stampa alla Camera per denunciare questa manovra che si fa strada grazie alla legittimazione progressiva della guerra. Abbiamo ricordato le parole di Draghi che invitava nel 2022 a scegliere la pace invece dei termosifoni per interrompere l’importazione di gas dalla Russia, invitando, ora, a fare lo stesso nei confronti del gas che arriva dall’Azerbaijan alle prese con il conflitto in Nagorno Karabakh, una guerra dimenticata che prefigura nuovamente lo spettro della pulizia etnica degli armeni. Tra l’altro vendiamo armi agli azeri che godono del sostegno della Turchia, Paese della Nato.  

Non dovrebbe essere il compito di una stampa libera suscitare un vero dibattito invece di farsi dettare l’agenda da altre finalità in un flusso continuo e irrilevante di immagini e notizie?  

Concludo con un desiderio che potrà sembrare folle in questo tempo ma che ritengo giusto fare qui: vedere un giorno Elio Pagani, obiettore dell’Aermacchi, e Franca Faita, operaia della Valsella, riconosciuti come massimi testimoni della Repubblica e della Costituzione.

Dobbiamo infatti dare spazio ad un'altra narrazione per non far prevalere il pensiero unico sulla guerra. Il prossimo 16 novembre in questa sala della protomoteca ci sarà un incontro programmato da tempo con la pastorale sociale nazionale che ha un titolo difficile e straziante “Non c’è pace senza perdono”. Ci saranno le testimonianze, ad esempio, di Giovanni Bachelet, delle comunità di pace nella Colombia e della famiglia palestinese dei Nassar che a Betlemme, pur sotto l’attacco costante alla proprietà della loro fattoria, continuano a ripetere: «non vogliamo essere i vostri nemici».

Cerchiamo di essere degni di questi testimoni!

Carlo Cefaloni

 

Roma, sabato 21 ottobre 2023 

Campidoglio Sala della Protomoteca

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